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Il Volontario |
Domenica 07 Novembre 2010 20:35 |
E’ giovedì, sono le dieci e mezzo, è una gelida serata di gennaio: scommetto che il 99% degli italiani è sdraiato sul divano, al calduccio. Io no, sono di servizio sull’ambulanza stasera. Dopo cena mi lavo il viso per scrollarmi dosso la stanchezza di una giornata di lavoro, infilo da divisa e, prima che il sonno e la pigrizia mi assalgano, mi dirigo verso la sede della Misericordia. Mia mamma dice che ormai è la mia seconda casa, potrei andarci a vivere. Sembra una serata tranquilla: quattro chiacchiere con gli altri davanti alla tv. Il telefono non squilla, la radio tace, nessuna emergenza neppure per le altre associazioni: siamo tutti rilassati e chissà che stasera non riusciamo a restare dentro. All’improvviso due squilli del telefono squarciano il silenzio e sovrastano il chiacchiericcio della tv. Ci voltiamo di scatto: è la linea della centrale. Dobbiamo uscire. Sono anni ormai che faccio la volontaria, ma ogni volta la stessa paura: “riuscirò a far tutto bene?”. Ma non c’è tempo di perdersi in riflessioni, si tratta di un codice rosso - pericolo di vita - e bisogna agire in fretta. Salto in ambulanza e mi infilo i guanti: schizza via a sirene spiegate, ma quel suono assordante non mi da più fastidio. All’inizio mi bucava il cervello, ma ormai non ci faccio nemmeno più caso. Durante il viaggio ripasso la procedura adatta per quella situazione. Arriviamo e, con tutta l’attrezzatura, saliamo in casa: odori, profumi tipici della vita di una famiglia come tante ci accolgono. Si tratta di una signora non più giovane che all’improvviso si è sentita male, forse ha avuto un infarto. Mi guardo intorno un po’ smarrita e, mentre il dottore inizia la sua indagine, mi domando cosa possa servire, cosa potrei preparare. Il cuore mi batte forte e comincio ad avere caldo. A volte devi agire così in fretta che non hai nemmeno tempo di toglierti la giacca, così resti lì, tutto sudato e rosso come un peperone, mentre cerchi di concentrarti e fare del tuo meglio. Il medico ci guida durante la procedura per stabilizzare le condizioni della signora: elettrocardiogramma, ossigeno, agocannula, flebo, il medicinale iniettato con una siringa. In questi momenti si deve agire così in fretta che le mani si muovono quasi da sole, nonostante l’emozione. Ora che le condizioni sono stabilizzate, bisogna portare il paziente al pronto soccorso. La figlia della paziente ha gli occhi arrossati di pianto e smarriti, vorrei rassicurarla ma non ho tempo. Così, mentre l’ambulanza riprende la corsa a sirene spiegate, mi limito a sorriderle per infonderle un po’ di fiducia e positività. Il viaggio verso il pronto soccorso è il momento peggiore: fin dal primo giorno, all’improvviso mi assale l’angoscia. Ho paura che la situazione precipiti. Guardo il dottore, poi il paziente, poi di nuovo il dottore, poi il paziente. Il paziente è nelle mani della squadra di cui faccio parte, qualunque cosa accada prima dell’arrivo in ospedale, saremo noi a doverlo aiutare. Anche dopo anni, la paura di non esserne in grado, il timore che ciò che si fa non sia sufficiente per aiutarlo, viene vissuta con angoscia Non riesco nemmeno a finire questi pensieri che siamo arrivati: tutto è andato bene. Mi aspetta l’ultimo sforzo, portare il paziente nella stanza n. 3, ma mi sento talmente sollevata che lo faccio quasi di corsa. Prima di uscire faccio gli auguri alla signora. Forse non mi sente neppure, ma è un’abitudine che ho da sempre: da quando faccio la volontaria, non lascio mai qualcuno senza prima avergli augurato buona fortuna, mi sembra un modo per stargli vicino. Mi sfilo i guanti con gesto liberatorio e, diciamocelo, un po’ cinematografico e seguo gli altri che rientrano in sede. Avrei bisogno di riposo, una boccata d’aria nella notte fredda per scrollarmi di dosso l’adrenalina, ma devo stare in guardia: il telefono potrebbe squillare ancora da un momento all’altro. Chissà.” |